Anche il re dei nani sedeva come una statua su un trono ricavato da un unico blocco di marmo nero, tozzo, disadorno e tagliato con estrema precisione. Il sovrano emanava una grande forza, una forza che risaliva ai tempi antichi in cui i nani avevano governato in Alagasëia, senza interferenze di elfi o umani. In testa, al posto della corona, portava un elmo rotondo, d'oro tempestato di diamanti e rubini. Il suo volto era arcigno, segnato dal tempo e solcato da rughe di esperienza. Sotto la fronte sporgente e le sopracciglia cespugliose brillavano occhi scuri e penetranti. Sul torace massiccio indossava una cotta di maglia. Portava la lunga barba bianca infilata nella cintura, e in grembo teneva un potente martello da guerra con il simbolo del clan dì Orik inciso sulla testa. Eragon si piegò goffamente su un ginocchio. Saphira rimase eretta. Il re si mosse, come svegliandosi da un lungo sonno, e borbottò: «Alzati. Cavaliere, non occorre che mi tributi alcun omaggio.»
Rialzandosi, Eragon incontrò gli occhi impescrutabili di Rothgar. Il re lo squadrò severo, poi disse con voce gutturale: «Àz knurl deimi lanok. Attenzione, la roccia cambia. Un vecchio detto che usa da noi. E oggi la roccia cambia molto in fretta, davvero.» Accarezzò l'impugnatura del martello. «Non ti ho potuto ricevere prima, come ha fatto Ajihad, perché sono stato costretto a occuparmi dei miei nemici all'interno dei clan. Pretendevano che ti negassi asilo e ti cacciassi dal Farthen Dùr. Mi ci è voluto molto per convincerli del contrario.»
«Ti ringrazio» disse Eragon. «Non sapevo che il mio arrivo avrebbe causato tanti problemi.» Il re accettò i ringraziamenti, poi levò una mano nodosa e indicò le statue lontane. «Guarda. Cavaliere Eragon, dove i miei predecessori siedono sui loro troni scolpiti. Sono quarantuno, e io sono il quarantaduesimo. Quando da questo mondo passerò nelle mani degli dei, la mia hìrna verrà aggiunta a quella schiera. La prima statua è quella del nostro antenato Korgan, che forgiò questa mazza. Volund. Per otto millenni, fin dall'alba della nostra razza, i nani hanno governato sotto il Farthen Dùr. Siamo le ossa della terra, più antichi sia dei leggiadri elfi che dei selvaggi draghi.» Saphira si mosse appena.
Rothgar si protese dal trono, la voce profonda e rauca. «Sono vecchio, umano, anche secondo il nostro modo di contare gli anni. Vecchio abbastanza da aver visto i Cavalieri nella loro fuggevole gloria, vecchio abbastanza da aver parlato con il loro ultimo comandante. Vrael, che mi venne a rendere omaggio fra queste stesse mura. Sono pochi i vivi che possono dire altrettanto. Ricordo i Cavalieri e come si immischiavano nei nostri affari. Ma ricordo anche la pace che mantenevano e che rendeva possibile viaggiare illesi da Tronjheim a Narda.
«E.ora tu sei di fronte a me… una tradizione perduta che si rinnova. Dimmi, e parla sinceramente, perché sei venuto nel Farthen Dùr? Sono a conoscenza degli eventi che ti hanno spinto a fuggire dall'Impero, ma quali sono le tue intenzioni, adesso?» .
«Per adesso, Saphira e io vogliamo soltanto recuperare le forze a Tronjheim» rispose Eragon. «Non siamo qui per creare problemi, solo per trovare asilo dai pericoli che abbiamo affrontato per tanti mesi. Ajihad vorrebbe mandarci dagli elfi, ma finché non lo fa, per noi va benissimo restare qui.» «Dunque è soltanto il desiderio di sicurezza che vi ha condotti qui?» chiese Rothgar. «Vuoi vivere a Tronjheim e dimenticare le tue questioni con l'Impero?»
Eragon scosse il capo, respingendo con orgoglio quell'affermazione. «Se Ajihad ti ha parlato del mio passato, dovresti sapere che l'Impero mi ha causato tanto dolore che non sarò soddisfatto finché non lo vedrò ridotto in cenere. Ma oltre a questo, voglio aiutare coloro che non possono opporsi a Galbatorix, compreso mio cugino. Possiedo la forza per aiutarli, quindi devo.»
Il re parve soddisfatto dalla risposta. Si rivolse a Saphira e chiese: «Drago, tu che cosa pensi in proposito? Per quale ragione siete venuti?»
Saphira arricciò il labbro di sopra per emettere un cupo ringhio.